Due vite e una casa misteriosa | Estratto da

Due vite e una casa misteriosa | Estratto da

07.03.2022


La casa è silenziosa come una cripta. Si muove solo l’acero: rami che oscillano nella brezza notturna, foglie che tremolano e poi brillano quando una luce si accende nella finestra in alto.
Marina parcheggia di fronte e spegne il motore. Con il cuore che martella, apre la portiera e scende dall’auto. L’aria di mezzanotte le sferza il viso. Ha il respiro sottile, come tracce di un fantasma. In lontananza, il traffico corre lungo la Streatham High Road. Una sirena urla. È stata a Tooting Bec da un’autrice, per l’editing del suo manoscritto. Agata è polacca e sta scrivendo un’autobiografia incentrata
sulla Seconda guerra mondiale. Tornando verso casa nel Wiltshire, Marina ha fatto una deviazione ed è sfrecciata attraverso la rete di strade dei sobborghi, oltre il parco, fino a Harrington Gardens.
È una strada qualsiasi, in una zona indefinita di Londra, e ha tutta l’aria di essere un posto serrato per l’inverno. Siepi incolte, viticci a cascata da ceste appese. Spazzatura strabordante che spinge in alto i coperchi dei bidoni. Su un vialetto, una carrozzina arrugginita è stata abbandonata assieme a un lettino rotto. Si tratta perlopiù di case bifamiliari, ma quella al numero 24 è diversa. Indipendente.
Una casa vittoriana a doppia facciata, con due timpani sormontati da un decoro a freccia. Una recinzione di ferro appuntita, con un cancelletto su entrambi i lati, delimita il giardino anteriore formato da un modesto pezzo di terra, con un solo acero e un sentiero geometrico. Gradini di pietra conducono a un ingresso imponente; scale di metallo portano nel seminterrato. A destra, una stradina pedonale la separa dalla casa accanto. Riverso a terra giace il cartello di un’agenzia immobiliare: “Affittasi appartamento 2.”
Marina confronta subito la realtà che ha davanti con le foto viste sul giornale. Quelle immagini sgranate, però, erano mere riproduzioni, mentre questo è un edificio solido, che imprime sulla via il segno della propria importanza.
Marina attraversa la strada. La casa è immersa nel buio, a parte la luce al secondo piano e una lanterna coperta di ragnatele sopra l’ingresso principale, ma è già sufficiente per notare i cornicioni pericolanti e il vetro colorato rotto. I mattoni andrebbero riparati, i davanzali ridipinti e l’acero potato.
Tre piani, cinque finestre, poi il seminterrato.
La luce della finestra in alto si spegne. Marina ha i brividi e si abbottona il cappotto di finta pelliccia. I capelli le ricadono copiosi sul viso: sono tanti, scuri e caldi. Indossa vestiti pesanti, gli scarponcini e un paio di mezzi guanti, eppure il freddo della notte le si insinua nelle ossa. Apre e chiude le dita, si sposta sotto un lampione, quasi che questo possa infonderle un po’ di calore.
Il cielo sopra di lei è pesante. Cadono fiocchi di neve sporadici. Marina dovrebbe tornarsene a casa. Dovrebbe risalire sulla sua Mini, accendere il riscaldamento al massimo e fuggire via da Londra. Ma non lo fa.
Avanza piano e sbircia la casa più da vicino.
Assieme alla serie di campanelli – ne conta cinque per i cinque appartamenti, più un altro a parte per il seminterrato – nota i dettagli originali: sulla porta il battaglio a forma di testa di leone con la bocca spalancata; il tiracampanello di metallo, che pende come un cappio; la lama a ghigliottina del raschietto per gli scarponcini.
Pensa alle persone che avranno sollevato il battaglio, suonato il campanello o raschiato le scarpe: inquilini e visitatori. Immagina la figura di una donna sola che sale lentamente i gradini come uno spettro, apre la porta e lascia una bambina all’interno.
“Chi lo farebbe mai?”
Un peso le si forma nel petto. È una vecchia domanda, eppure il corpo di Marina si piega dal dolore, perché sa di essere lei quella bambina, e che quella donna è sua madre.

* * *

“Non può essere vero”, pensò Connie, respirando con affanno, mentre procedeva spedita lungo il marciapiede di Harrington Gardens. Le era saltato un altro ciclo e quella mattina era stata male. Aveva avuto degli spasmi profondi, dei conati di vomito, ancor prima di mangiare.
Sapeva che era un sintomo perché la signora Kolinski era stata male durante la gravidanza.
Non che poi fosse riuscita a partorire.
L’aveva perso, quel bambino, subito dopo il marito, a distanza di appena tre settimane. Alcune persone, diceva il padre di Connie, avevano una fortuna del diavolo, altre ne erano sprovviste.
Nonostante il caldo di quella mattina, Connie tremava. Essere sfortunati non si avvicinava minimamente a quello che l’aspettava.
Avere un bambino a diciassette anni.
Suo padre ne sarebbe rimasto distrutto, per la preoccupazione di prendersene cura e di racimolare abbastanza soldi. I suoi occhi l’avrebbero biasimata. “E tua madre? Cosa avrebbe detto?”
Eppure, un bambino, una versione di lui in miniatura... Era davvero un male? Si fermò, pensando a Johnny. I suoi occhi azzurri, i capelli neri.
Sapendo che suo padre l’aspettava in libreria con una lista di cose da fare, aumentò di nuovo il passo. Il negozio apriva alle nove ma lui ci andava prima. A volte usciva dall’appartamento quando lei non si era ancora svegliata.
Un rivolo di sudore le scese lentamente lungo il collo. Connie sollevò i capelli scuri e li raccolse in una coda alta, che fermò con un elastico trovato in una tasca del vestito. Il suo vestito preferito, corto, di un giallo acceso con i pois neri. Ne lisciò il davanti, cercando di capire se si notasse già qualcosa, ma la pancia era piatta come sempre. Almeno quello. Magari si era sbagliata e aveva calcolato male le date. Forse si sentiva così perché il ciclo era imminente. Il sangue sarebbe arrivato, e con lui i crampi. Infastidita
dall’inconveniente, avrebbe riso di sé stessa per averne fatto un dramma.
Tuttavia... Forse era il caso di farsi visitare dal dottor Franklin. Al pensiero di sedersi nel suo studio rabbrividì. Come avrebbe fatto a spiegare a quell’uomo che la conosceva fin dall’infanzia che sospettava di essere incinta?
Un uomo che l’aveva vista con i codini, che le aveva detto che si era presa la varicella, che era convinto che con la crescita il suo eczema sarebbe sparito. Era stato lui a fare la diagnosi a sua madre. Sapeva tutto della loro famiglia.

Il nascondiglio
di Jenny Quintana

DAL 10 MARZO IN LIBRERIA


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